Riflettevo su un fatto accaduto qualche tempo fa nel consultorio familiare che frequento come psicologo volontario alla periferia di Roma.

Un giorno si è presentata una ragazza di 18 anni, appena compiuti, con la mamma. La ragazza era in lacrime e non riusciva a trattenerle. Era venuta al consultorio perché voleva abortire, ma allo stesso tempo non avrebbe mai voluto abbandonare, perdere la vita che portava nel grembo.

L’ho accolta, ascoltata. Mi ha raccontato la sua storia, quello che le era successo. Il nostro incontro le ha permesso di vedere uno spiraglio, una possibilità differente. Se ne va con un appuntamento per un incontro successivo, dove sarebbe venuta con il ragazzo con il quale aveva concepito.

Che sensazioni, sentivo di avere di fronte due pulcini spaventati per quello che stava avvenendo nelle loro vite. Li accolgo e li ascolto. Insieme cerchiamo di ripercorrere i loro desideri, i loro sogni, i significati. Se ne vanno con uno spiraglio di luce, lei non piangeva più e lui pensava a come poteva essere la sua vita da ora in avanti.

Torna la ragazza, accompagnata dalla madre, ma lui non si presenta. Un muro aveva spento quella luce, una violenza inenarrabile, una violenza familiare, la violenza di chi non voleva assolutamente saperne di accompagnare il proprio figlio verso l’autonomia, l’assunzione di responsabilità. Un’appartenenza così totalizzante e invischiante che la persona e i suoi sogni sono scoparsi di fronte ad un no, violento soprattutto nei confronti della ragazza diventata d’un tratto indesiderabile.

A lei non è più stato sufficiente sentire il sostegno dei genitori, disponibili a stringersi per accogliere, ha prevalso la paura che ha spento per sempre quella meravigliosa luce.

Di fronte a tutto ciò non mi indigno, mi fermo e rifletto.

Dovremmo cominciare ad introdurre paradigmi diversi nelle nostre riflessioni soprattutto di fronte a temi così forti e fondamentali che richiamano l’etica della vita. Nelle nostre discussioni spesso proponiamo un binomio molte forte e a volte violento che vede contrapposte da un lato la sacralità della vita e dall’altro la qualità della vita, da un lato le posizioni cattoliche e dall’altro le posizioni laiche. Una distinzione che certamente risulta sensata, ma oggi più che mai insostenibile. Il concetto di sacralità come quella di qualità hanno comunque a che fare con la vita e sono entrambi patrimonio di cristiani e laici in quanto patrimonio dell’umanità. «La cura della vita concreta in ogni suo aspetto per farne fiorire la qualità, così come il comando “non uccidere” per rispettare la vita nella sua sacralità, sono riferimenti vincolanti per tutte le spiritualità mondiali e per tutte le filosofie che intendono onorare il primato della coscienza morale, siano esse aperte alla dimensione religiosa oppure no»[1].

Ritengo necessario individuare un nuovo paradigma che ci permetta di superare le contrapposizioni e porci nell’ottica della persona. Una visione che sappia accompagnare, accogliendo il dolore e facendo emergere un next, un’intenzionalità per un futuro possibile.

Non possiamo pensare alla realtà umana se non nella sua complessità, particolarmente vista dalla prospettiva della relazionalità intesa come esserci-con. Nella dinamica tra individuo e società ogni realtà sociale, nel cercare la sua sopravvivenza, prova a dare una priorità ora all’individuo ora alla società in base al suo contesto. Questo determina una società basata sul “noi” o una società basata sull’”io”.

Il noi è la società dell’Eroe, del Milite ignoto e per contro del traditore. Il luogo dove prevale il bene del gruppo a discapito del singolo, ci si sacrifica spontaneamente per esso. È prioritaria la mission, ci si raduna attorno ad un leader più o meno forte, ma che raccoglie le paure e si pone contro i nemici. Il noi è un confine che separa da loro.

L’Io è invece la società basata sull’individualità. Scomparse le paure, la società di sperimenta complessa e frammentata. Nasce il bisogno di autorealizzarsi in pienezza. È ridotto l’interesse per il bene comune, si è tendenzialmente interessati più ai propri diritti che ai propri doveri. Si allentano i legami e le convivenze diventano fragili. Ogni modello vede l’emergere di proprie patologie che si rendono più o meno visibili e che segnano il vissuto dell’uomo nella propria epoca[2].

Ripensando ai due ragazzi, sento molto smarrimento, molta confusione. Da un lato sperimentano un’appartenenza che è ingombrante e dall’altro non riescono a far emergere la loro individualità. C’è un processo di crescita che viene bloccato, che si interrompe e che non evolve. Così come una società che appartiene a sé stessa o che è disgregata e frantumata è una società bloccata che non matura e che frena il passo degli uomini.

Il punto qui non è quale società sia migliore dell’altra. Il punto non è gridare noi siamo giusti e voi sbagliati. Proviamo a pensare a questa frase: “Ci alzeremo in piedi”. Concentriamoci per un istante su queste parole e proviamo a sentire cosa ci dice il nostro corpo. Per alzarci in piedi abbiamo bisogno dell’altro, ma allo stesso tempo di noi stessi. Abbiamo necessità di sentirci, di sentire tutta la nostra corporeità, le nostre gambe, i nostri genitali, i nostri uteri. Abbiamo necessità di entrare dentro di noi, ascoltandoci, ascoltando nel profondo la nostra coscienza di uomini e donne. E questo vuol dire tendere fortemente alla soggettività. Fin quando la persona non raggiunge sé stessa e non si appropria di sé, non c’è possibilità che ci si appropri di altri[3].

Nello sviluppo il bambino scopre il tu solo dopo aver scoperto fino infondo sé stesso. Attorno al quindicesimo/diciottesimo mese, il bambino opera due tipi di differenziazioni: l’immagine di sé e l’immagine dell’altro da un lato e l’immagine e la realtà dall’altro. Diventa così capace di riconoscere ciò che sta dentro da ciò che sta fuori, ciò che appartiene ai propri confini da ciò che è estraneo. E, novità delle novità, diventa consapevole che, per alcuni aspetti e in certi momenti, può fare a meno della madre. «Egli può fare a sé stesso sia quello che vorrebbe ricevere dall’ambiente sia quello che vorrebbe fare all’ambiente»[4]. Solo quando si accorge della propria individualità, per un periodo infatti continua a confrontarsi con sé stesso prendendosi cura di sé, va verso il tu con il quale entra in contatto costruendo una relazione.

In conclusione credo che il tema fondamentale sul quale dovremmo riflettere sia come possiamo aiutare le persone a mettersi in relazione. Anche questioni delicate e complesse come quelle bioetiche hanno a che vedere con le relazioni tra le persone, con le modalità che le persone usano per entrare in contatto. Secondo questo schema non hanno senso regole dettate dall’alto, regole predefinite e preconfezionate, ma sarà necessario passare ad attivare le responsabilità individuali, come in una rotatoria che ha ormai, in molteplici situazioni, sostituito i semafori. Le regole esistono e non si possono escludere, ma attraverso le responsabilità individuali ogni persona trova dentro di sé sostegno per le proprie scelte e per indirizzare la propria vita.

Dott. Marco Volante

[1] Mancuso, V. Questa Vita. Garzanti, 2015, p. 102.

[2] Sul Modello Relazionale di Base (MRB) cfr Salonia, G. Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica. Il pozzo di Giacobbe, 2013, pp. 17-32.

[3] Cfr Salonia, G. Le relazioni educative nelle realtà plurali, in Caritas diocesana di Noto, Ai piedi della loro crescita – Una ricerca sui servizi per bambini e giovani nel territorio e alcuni materiali per costruire ‘patti educativi’, il pozzo di Giacobbe, Libreria Editrice, 2010, pp. 31-36.

[4] Salonia, G. Dal noi al Io-Tu. Quaderni di Gestalt 8-9, 1989, p. 51.